Il Territorio
DRAPIA
A5 km da Tropea, nella provincia di Vibo Valentia,
sorge, a ridosso di una lussureggiante collina, il pittoresco paese di Drapia.
Il viaggiatore che, lasciata la città
di Tropea, si dirige lungo la strada provinciale per Vibo Valentia, appena dopo
3 km, al primo bivio svolterà a sinistra e, dopo aver percorso altri 2 km,
attraversato l’abitato di Gasponi, arriverà dritto al paese di Drapia.
Le origini e la storia
Probabilmente il primo nucleo del paese dovette
sorgere in età prebizantina, prendendo il nome dalla vicina città di Tropea,
storpiato col tempo in Drapea e oggi
in Drapia. L’origine del
toponimo potrebbe essere legato al fatto che, in quel periodo, tutto il
territorio intorno a Tropea faceva parte della Massa Trapeas (masseria
tropeana), di proprietà della Chiesa Romana, costituita da grandi
concentrazioni di latifondi contigui, case coloniche, greggi, chiese e
monasteri.
A capo di essa vi era un Rettore,
nominato direttamente dal Papa, il quale delegava l’amministrazione ad un
“conductor” (conduttore) il quale aveva il compito di
riscuotere gli affitti dei coloni che occupavano le diverse terre in cui la
massa era suddivisa.
Con molta probabilità, i primi abitanti
del paese dovettero essere gruppi di popolazione non stabile, appunto coloni,
che col tempo andarono a costituire un vero e proprio villaggio.
L’abitato si estese durante il periodo
bizantino quando, nell’anno 700, fu edificato il monastero greco di San Sergio
e Bacco e intorno al IX secolo, quando la città di Tropea fu liberata dalle
mani dei pirati islamici dal generale Niceforo Focas (poi detto il Vecchio)
mandato nell’885 dall’imperatore bizantino Basilio I il Macedone a
riconquistare tutto il sud d’Italia che era schiacciato dalla pressione araba e
longobarda. Come dice il Fiore questi pirati, dopo essere stati scacciati dalla
città, si rifugiarono verso l’interno fondando diversi villaggi e probabilmente
incrementando quelli già esistenti.
Alla dominazione bizantina si sostituì
quella normanna, causa ed effetto di notevoli sconvolgimenti, sia in campo
economico-strutturale con l’introduzione del sistema feudale, sia in campo
culturale con la sostituzione della liturgia della lingua greca con quella
latina.
Al dominio normanno successero quello
svevo, angioino e aragonese.
La fine del medioevo e l’inizio
dell’età moderna fu un periodo particolare, caratterizzato cioè da abbondanti
produzioni grazie al lavoro dell’uomo, ma innanzitutto alla ricchezza del
terreno. La grande fertilità dei campi e quindi l’insieme delle culture
agricole del luogo sono presenti nell’emblema del paese, formato da tre
spighe di grano, un monte verde, una spada e una scimitarra
incrociate a simbolo della lotta che in epoca passata i drapiesi dovettero
sostenere contro i pirati saraceni.
In questo periodo Drapia è uno dei 23 Casali
dipendenti da Tropea. Dal capoluogo, i casali erano considerati
“università (comuni) rurali”, ma dipendevano in tutto e per tutto da
Tropea. A capo di essi vi era un “amministratore sindaco” nominato
dai sindaci della Città capoluogo, il cui compito essenziale era la riscossione
delle tasse. Non poche volte questi villaggi si coalizzarono per ribellarsi al
capoluogo che li opprimeva al pagamento di grosse somme.
A differenza del ‘6oo che per la
Calabria è stata un’epoca di forte crisi, a tal punto da farla regredire di
molto rispetto ai secoli precedenti, il ‘7oo fu un periodo florido.
A Drapia, in questo periodo,
abbondavano vino, frutta d’ogni genere, olio e legumi; fiorente era anche il
commercio con molti paesi del regno di Napoli, con lo Stato Pontificio e il
Veneto. Essendo gente industriosa, la gente di Drapia fu la prima nel
circondario di Tropea a dare vita all’industria serica, del lino e del cotone.
La fiorente economia e quindi gli
affari che andavano a gonfie vele convincevano i tanti nobili di Tropea,
proprietari di molte terre nei 23 Casali e quindi di gran parte della
produzione, a soggiornare spesso in questo villaggio.
Nel XIX secolo, con la fine del
controllo di Tropea sui Casali e con l’arrivo di Napoleone, vi fu uno
sconvolgimento radicale dell’amministrazione di tutto il regno il cui assetto
amministrativo veniva completamente ridisegnato.
Nel 1812 fu ufficialmente istituito
il Comune di Drapia e ad esso furono aggregate le frazioni di Gasponi, Brattirò
e Caria.
In quegli anni il paese comprendeva,
oltre alle case di campagna, quattro quartieri: Canchi, Carcara, Celsi e
Stretto. Le principali risorse erano date dal commercio e dall’artigianato
locale e se anche le condizioni di vita erano migliori di altre località, non
possiamo certo ritenerle floride.
L’unità d’Italia, agli inizi, portò con
sé tutta una serie di gravi conseguenze: il brigantaggio e l’emigrazione, con
il conseguente svuotamento di tutti i paesi del sud. I drapiesi emigrarono in
massa, all’estero e in molte città del nord Italia.
Il XX secolo è stato caratterizzato
innanzitutto da una serie d’avvenimenti che sconvolsero in modo radicale la
vita del piccolo paese, a cominciare dai primi anni con i catastrofici
terremoti dell’8 settembre 1905 e del 28 dicembre 1908. Oltre agli ingenti
danni causati alle abitazioni, lo sconforto creatosi tra i cittadini fu
talmente lacerante che obbligò ancora una buona parte a scegliere la strada
dell’emigrazione. I segni di una mancata ripresa economica favorita dal lavoro
dei campi, così come c’era stata in altri periodi, ma anche una auspicata
espansione urbana è tutt’oggi leggibile tra le stradine e le case che parlano
di un tempo dimenticato e molto remoto.
Visitare il comune di Drapia
La visita ha
inizio dai mulini ubicati lungo la fiumara Brummaria che scorre in una gola
vicino all’abitato di Drapia. Prima di arrivare in paese, a destra del ponte
sulla detta fiumara, incontriamo il primo dei mulini, quello De Rito. Questo
mulino è ad un solo livello, in pietra granitica locale con volta a botte
costruita in conci di pietra parzialmente squadrata disposta a coltello.
Particolare è la “saitta” a forma di tronco conico, che
differisce da tutti gli altri presenti nella zona a tal punto da rendere la
costruzione peculiare come tipologia. Oltre al locale per la molitura, ne
troviamo un altro destinato al “ricovero dell’asino”. Risalente
probabilmente al periodo medioevale, subì vari interventi di ristrutturazione
nel ‘700 e nel ‘800.
Attualmente il mulino giace in pessime
condizioni ed è inagibile.
Salendo verso il colle, a poche
centinaia di metri, immettendosi per una stretta stradina, incontriamo il “mulino
Loiacono” risalente allo stesso periodo di quello De Rito, ed è ancora in
attività. E’ costruito su un solo livello in pietra granitica locale e ha una
copertura a volta a botte, in conci di pietra disposti a coltello.
Continuando verso il paese, il nostro
itinerario prosegue con la Chiesa della Madonna del Carmine, ubicata
all’inizio dell’abitato davanti al municipio. Attualmente è inagibile e chiusa
al culto. La sua fondazione risale al 1890 e fu edificata da Michele
Mazzitelli. Consta di un unico ambiente di forma rettangolare privo
d’abside. Il lato che prospetta sulla strada poggia su due gradini e reca sui
propri stipiti un paramento in blocchi di pietra granitica.
Proseguendo per il caratteristico Corso
Umberto I, un tempo totalmente pavimentato in pietra e purtroppo coperto nel
secolo passato con asfalto, camminando tra antichi palazzi decorati con
splendidi portali e balconi in granito e pietra tufacea, si incontra la Chiesa
dell’Immacolata Concezione che è l’attuale chiesa parrocchiale di Drapia.
Non conosciamo quando essa fu edificata, ma doveva già esistere nel ‘500. Nel corso dei
secoli subì vari interventi, a conferma di ciò, negli anni ’60, durante gli
scavi compiuti per la sostituzione del pavimento, sono state portate alla luce
le fondamenta di un edificio più piccolo.
In quel primo periodo, la chiesa era
dedicata a San Pietro Apostolo,
successivamente assunse il titolo di Chiesa dell’Immacolata Concezione.
La costruzione dell’attuale abside
risale alla fine dell’800.
Il terremoto del 1908 fu causa di danni
in parte irreparabili; il soffitto, crollato completamente, venne ricostruito
in legno e coperto di tela, ma solo trent’anni dopo furono possibili interventi
definitivi di restauro.
La chiesa si presenta oggi di forma
rettangolare con abside semicircolare e la volta a botte. La facciata con
timpano è decorata con un rosone in vetro colorato e ferro battuto. Il
campanile a pianta quadrata è decorato da monofore e pseudo monofore ogivali.
Al suo interno, di stile composito con stucchi e marmi di pregevole fattura,
possiamo trovare diverse opere degne di rilievo, tra cui il ciborio (XVII
sec.); la statua lignea della vergine Immacolata, in stile liberty (XIX
sec.), di San Michele Arcangelo (XIX sec.),
di Santa Domenica (che si dice
proveniente dal convento di San Sergio e Bacco) (XVII sec.), di San Nicola (1897);
una tela dell’ultima cena (probabilmente
proveniente dal convento di San Sergio e Bacco) di Domenico Finoglia da Napoli
(1670); una tela raffigurante la deposizione di nostro
Signore Gesù Cristo (copia di un quadro più grande che si trova nella
Cattedrale di Perugia), di Vincenzo Basile (XIX sec.); una tela della Madonna del
Carmelo, con San Nicola (a destra) e San Francesco di Paola
(a sinistra) di F. Bagnati (1840).
Attaccato alla chiesa parrocchiale, si
trova l’oratorio di San Michele, di proprietà
della confraternita.
Non sappiamo quando esso fu edificato, ma dovette
sicuramente subire delle modifiche nel corso dei secoli. Al suo interno si
possono trovare diverse opere d’arte; un ciclo d’otto tele che raccontano la
vita di Maria: la natività di Maria (XIX sec);
la presentazione al tempio di Maria (XIX
sec.); lo sposalizio di Maria e Giuseppe (XIX
sec.); l’annunciazione (1800); il miracolo della
verga, (XIX sec.); la natività di Gesù, (XIX sec.); l’adorazione dei
Magi (1808); l’incoronazione di Maria (1809). Si
trovano altresì: una tela dell’arcangelo Raffaele (XIX
sec.); un quadro rappresentante l’angelo custode (XIX sec); una tela
di Santa Domenica di Vincenzo Basile (1848);
una tela di Sant’Antonio di F.
Bagnati (1840); una statua della Madonna del
Carmelo (proveniente dalla chiesa, ora abbandonata, a
lei dedicata) (XIX sec.); parte di un coro ligneo parzialmente
distrutto.
Continuando la visita al centro storico di Drapia,
dopo aver percorso tutto il Corso Umberto I, arrivati in Piazza IV Novembre,
continuando sempre dritti, dopo un breve tratto in discesa, arriviamo ad una
piccola edicola dedicata a San Sergio Martire, che ricorda l’antico monastero
che sorgeva nelle vicinanze e del quale sono ancora visibili i resti. Il
monastero era ubicato nella valle tra Drapia, Alafito (poi andato
distrutto) e Zaccanopoli. Fu edificato nell’anno 700 dai
basiliani, quale monastero di San Sergio e Bacco. Il cenobio fu
meta di vari santi penitenti. Era fornito d’orto, di un proprio boschetto e di
una fonte d’acqua salubre (che scorre ancor oggi) detta “Vardaro“.
Sempre meta di pellegrinaggi da parte
dei cittadini di Tropea, nell’anno 1221, con una bolla
di Onorio III, il monastero ricevette una visita particolare, quella di due
delegati apostolici, cioè del Vescovo di Crotone e dell’Abate di Grottaferrata.
Avanti negli anni i basiliani lo abbandonarono perché l’edificio stava andando
in rovina per il cedimento del sottosuolo. Dopo essere stato riparato, il
vescovo di Tropea, Nicolò Acciapaccia, nell’anno 1421, lo consegnò ai
Francescani, che lo rifondarono come Convento di San Sergio e Bacco. Proprio in
questo periodo vi fu guardiano San Bernardino da Siena. Per secoli si
conservò nel convento lo scudo che il santo portava con sé nelle sue missioni.
Successivamente, il terremoto del 5 febbraio 1783 lo distrusse in maniera tale
che ai giorni nostri non rimangono che pochi ruderi, qualche quadro, una statua di Santa Domenica, conservati nella
chiesa parrocchiale di Drapia e il tabernacolo, che fu trasportato nella
chiesa parrocchiale di Caria.
Ritornando indietro verso Piazza IV
Novembre e proseguendo dove l’abitato confina con le campagne, troviamo
la cappella della Madonna del Carmine.
Inizialmente, nel 1861, ci doveva
essere un’edicola dove era venerata la Vergine del monte Carmelo e dove, col
tempo, nell’anno 1908 fu edificata l’attuale cappella. La devozione del popolo
è tale che, nell’anno 1991, fu restaurata integralmente. Ha forma rettangolare
senza abside e le mura sono
completamente intonacate. Non presenta
nessun pregio artistico. Di qualche rilevanza artistica è la pittura dipinta su
maiolica, rappresentante la Vergine del Carmelo, custodita al
suo interno (1861).
Ripercorrendo la stessa strada, girando
a destra al bivio continuiamo la nostra visita dirigendoci verso Gasponi.
Sorto
probabilmente in età prebizantina, col nome di Chespanum o Chespano, inizialmente
Gasponi si dovette sviluppare nella parte antica dell’attuale paese e in
prossimità del fiumicello Cheo (ora torrente Lumia) dal quale, secondo il
Barrio, successivamente l’abitato prese il nome. E’ probabile che il paese
sorse nell’ambito degli insediamenti rurali nella già citata “masseria
tropeana” come gruppi di popolazione non stabile, che col tempo andò a
costituire un vero e proprio villaggio.
L’abitato dovette accrescersi nel
periodo bizantino e ulteriormente intorno al IX secolo quando, come ci dice il
Fiore, furono fondati molti villaggi della zona.
Gasponi, così come fu per Drapia, visse
sotto la dominazione normanna sostituitasi a quella di Bisanzio e subì le
conseguenze del cambiamento in ogni settore, sia economico che culturale.
Nel ‘5oo Gasponi faceva parte dei 23
Casali di Tropea. Era un centro agricolo dove abbondava la produzione dell’olio
alternando periodi di floridezza e crisi.
Il secolo successivo si presenta
addirittura come un periodo di completo regresso: l’economia non risponde né al
lavoro dell’uomo né alla fertilità dei campi e questo fu causa di un
inevitabile decremento demografico. Come se ciò non bastasse, sempre nel ‘600,
Gasponi che pure disponeva di tre Torri per la difesa del suo
territorio, era impegnata per la difesa contro le continue incursioni
piratesche.
Le Torri avevano la funzione di avvertire la popolazione, con fuochi o suono di campana, a seconda dell’ora del pericolo ed erano dislocate in vari punti strategici lungo il territorio:
- la prima era nel tratto del paese chiamato”avanzi a turri“;
- la seconda sulle pendici della località detta S. Angelo nella zona detta “turretta“;
- la terza sulla collina che s’innalza alle spalle del paese nella contrada detta “Marcea“.
Non conosciamo quando esse furono costruite ma, considerando i materiali costruttivi e che erano Torri quadrate, possiamo farle risalire al “Periodo Viceregnale” (periodo in cui il regno di Napoli fu sotto il dominio spagnolo e per breve austriaco, anziché esserci un re vi era un viceré, un nobile potente che svolgeva le funzioni di sovrano, questo periodo durò dal XVI secolo fino al 1734, quando Carlo di Borbone conquistò il Regno di Napoli e fondò la dinastia Borbone-Napoli).
Della loro esistenza non rimangono che pochi ruderi a causa dei continui terremoti che si sono succeduti e all’incuria della gente.
Il ‘7oo fu, in grandi linee, un periodo di
benessere per Gasponi con abbondante produzione di verdura, cereali, ulivi e
frutta d’ogni genere. Vi si coltivava il lino e le piante di cotone ed era
praticata la produzione ed il commercio della seta.
Vi era abbondanza d’acqua che veniva
utilizzata per l’irrigazione dei campi e che andando verso valle, alimentava
alcuni mulini. Vi era, inoltre, una fonte che forniva ottima acqua in quantità.
Molti nobili di Tropea erano soliti risiedere in questo villaggio.
Nel
1812, Gasponi entrò a far parte del Comune di Drapia,
insieme alle frazioni di Caria e Brattirò.
Nel paese, in questo periodo,
l’attività prevalente era l’agricoltura e se anche nella nostra zona vi era un
relativo benessere, le condizioni di vita non si possono ritenere certo
migliori che altrove. A ciò si aggiunse l’unità d’Italia con tutte le sue
conseguenze, dal brigantaggio che diruppe violentemente, all’emigrazione
causata dalle cattive condizioni in cui si era costretti a vivere.
Il
secolo XX fu un periodo di sconvolgimento radicale sin dagli
inizi. Infatti, in seguito al terremoto dell’8 settembre 1905 e del 28
dicembre 1908, che distrusse gran parte dell’abitato di Gasponi, molti
abitanti rimasero senza tetto. Per essi si costruirono circa cento baracche ed
essendo la chiesa parrocchiale gravemente danneggiata in quegli anni fece da
chiesa una baracca di legno. Il regio decreto (convertito poi in legge)
stabiliva, fra gli altri articoli, che la costruzione per l’ampliamento
dell’abitato doveva essere fatta nella contrada S. Angelo. Nel 1914 il Genio
Civile dava inizio alla pratica dello spostamento per disposizione del
Ministero Direz. Gen. dei servizi speciali. Successivamente per l’opposizione
della popolazione, il progetto fu abbandonato e l’ampliamento si fece vicino al
vecchio centro abitato.
Nel paese di Gasponi, appena lasciata
Drapia, percorriamo viale Che Guevara e giriamo al bivio a sinistra. Dopo aver
percorso per un breve tratto via Cesare Battisti, arriviamo in Piazza Giovanni
XXIII, dove il nostro itinerario prosegue con la visita alla chiesa di
Sant’Acendino Martire.
Attuale chiesa parrocchiale fu iniziata
nel 1935 dall’opera interdiocesana per le chiese terremotate di Calabria
e ultimata soltanto nel 1957 a causa di varie vicissitudini. Ha assunto il suo
presente aspetto tra gli anni ’60 e ’70. L’esterno, come l’interno, è di stile
romanico. Sulla facciata, con timpano, si notano due lesene e il portale
sovrastato da uno stemma. A destra si innalza il campanile, a pianta
quadrangolare. Nel suo interno, a navata unica con abside semicircolare
decorato da una serie di lesene che si congiungono nel catino, si possono
trovare pregevoli opere provenienti, per la maggior parte, dalla precedente
chiesa. Tra esse il ciborio (XVIII sec.); una tela
raffigurante la Vergine del Carmelo tra gli
angeli i Santi Acendino e compagni (a sinistra) e San Carlo Borromeo (a destra)
(XVII-XVIII sec.); un crocifisso ligneo (XVIII sec.); una
scultura lignea della beata Vergine del SS. Rosario attribuita
a De Lorenzo di San Pietro di Caridà (XVII sec.); una scultura lignea di San Nicola (XVIII
sec.); una scultura lignea di Sant’Acendino di Corrado Rungaldi
d’Ortisei (Bolzano) (1969); una tela raffigurante la Sacra Famiglia, Santa
Elisabetta e San Giovanni Battista eseguita da Pietro Chiapparo (pittore
tropeano) (1888); un armonium (o armonio) di A. Dobois di
Parigi, (primi del ‘900). Inoltre sono conservate una statua lignea della Madonna addolorata (XVIII
sec.); una piccola riproduzione della Madonna di Romania di Pietro
Chiapparo (1890).
Lasciata la chiesa di Sant’Acendino,
continuando sempre dritti per via Michele Bianchi, dopo pochi metri, giungiamo
alla chiesa di Santa Domenica.
Attualmente sconsacrata, probabilmente
fu edificata nel periodo medioevale. Funzionò per qualche centinaia d’anni.
Dopo qualche tempo d’abbandono fu riconsacrata il 7 novembre 1729 (o 1709), ma
in seguito fu di nuovo abbandonata e quindi adibita a frantoio. L’attuale
edificio consta di due ambienti rettangolari in asse fra loro, di diverse
dimensioni: il piccolo fungeva da santuario, senza abside, il più grande da
navata unica. Essi sono separati da un arco a tutto sesto, ampio per tutta la dimensione
della larghezza del santuario. Sopra la chiave dell’arco sporge una mensola in
pietra usata come probabile sostegno del Crocifisso, oggi asportato. Il
soffitto è ligneo. Le mura sono intonacate e, a causa di ciò, non è possibile
una lettura più precisa della struttura. Ha diverse aperture che danno
attualmente su ambienti adiacenti alla chiesa, tranne quella occidentale che dà
sulla strada.
Proseguendo per Via Michele Bianchi,
dopo qualche metro, ci troviamo un piccolo piazzale, dal cui angolo sinistro,
attraverso una piccolissima viuzza, si accede al luogo denominato “avanz’a
turri”, i cui resti sono stati precedentemente citati. Ritornando
indietro, svoltando per Via Torre e percorrendo la piccola Via Chiesa
costellata di antichi palazzetti, arriviamo nel cuore del centro storico dove
c’è la chiesa dedicata ai Santi Acindyno (o Acendino),
Anempodisto, Aftonio, Elpideforo e Pegasio, compagni Martiri di Persia, di cui è
ancora integra la facciata. Non sappiamo quando essa fu edificata, ma doveva
esistere già nel medioevo. Nei secoli subì vari interventi di modifica e
ampliamento. Inizialmente era di modeste dimensioni e probabilmente nel 1593 fu
modificata e ampliata, assumendo la sua attuale forma. Ulteriori interventi
all’esterno ed all’interno si ebbero nel 1724 e poi nel 1892, anno in cui fu
ricostruito il campanile. I terremoti dell’8 settembre del 1905 e del 28
dicembre 1908 la distrussero quasi completamente, tant’è che crollarono la
facciata esterna principale, il tetto e la volta, inoltre il pavimento
sprofondò ricoprendo la cripta. In quel periodo funzionò come chiesa una
baracca di legno. Dopo molte peripezie, con l’aiuto dei fondi statali e con la
partecipazione del popolo, la chiesa fu riedificata, ma senza particolari
attenzioni, tant’è che appena qualche anno dopo veniva dichiarata pericolante
dai funzionari statali e si iniziava la costruzione di una nuova chiesa.
Proseguendo per qualche metro per Via Chiesa, girando a sinistra immettendoci
in piazza Oh-Chi-Min e poi di nuovo per Via Cesare Battisti a un
centinaio di metri arriviamo all’ ”oratorio della confraternita “ dedicato
al SS. Redentore.
Edificato nel 1724, fu ampliato e riconsacrato il 13
febbraio 1911.
E’ una piccola cappella di forma
rettangolare, a navata unica, senza abside. La facciata è romanica ed è
abbellita da quattro lesene con capitello. Sul portone ha una finestra a
lunetta. In alto c’è una struttura campanaria in mattoni. E’ costruita in
muratura di pietra calcare e pietra granitica, con soffitto in legno e copertura
a due falde con struttura portante in legno e manto di copertura in coppi di
laterizio.
Continuando per Via Cesare Battisti,
arriviamo al bivio che ci immette sulla strada da cui è iniziata la visita.
Ripercorrendola, continuiamo sempre dritti lasciando l’abitato e, dopo circa un
chilometro, girando a sinistra, al primo bivio e a quello successivo a destra,
si entra nella contrada Sant’Angelo facente parte del territorio parrocchiale
di Gasponi. All’interno di Villa Felice c’è la chiesa che in passato faceva
parte di un monastero tra i più antichi della Calabria. Non si sa di preciso
quando esso fu eretto, ma certo era di origini antichissime. Sorto inizialmente
col nome di San Lorenzo in seguito si chiamò
di Sant’Arcangelo. In questo primo periodo
doveva essere una fondazione prebenedettina. L’antico monastero traeva in
affitto una piccola terra di proprietà della Chiesa Romana e facente parte
della Massa (masseria) tropeana che nel 400 d. C. era guidata da Irene
“conductrix” (conduttrice) e probabilmente da suo marito. Il notaio
Pietro ed un certo numero di diaconi e suddiaconi o “difensores”
avevano il compito di amministrare le tenute di questi luoghi avendo anche
potere sulle persone che le ricevevano in affitto. Queste mansioni erano
coadiuvate da un Rettore (da cui tutti dipendevano) nominato dal Papa. La massa
era formata da molte proprietà con case coloniche (che col tempo andarono a
formare veri e propri villaggi), greggi ed attrezzi ed era fornita di una
chiesa, di un oratorio e probabilmente di un’osteria. Nel 591 il papa Gregorio Magno scriveva al
notaio Pietro e gli ordinava di diminuire il canone annuale ai monaci del
Monastero di Sant’Arcangelo che pagavano per l’affitto della tenuta suddetta.
Sempre dallo stesso epistolario veniamo a conoscenza che nel 595 il cenobio si
trovava in gravi condizioni a causa delle incursioni barbariche. Nel 596 fu egumeno
Massimiano (nativo di Tropea).
Fu grecizzato nel secolo VIII quale
monastero greco di Sant’Angiolo.
Nell’anno 1265 era
egumeno Ioannicchio. Nel 1300 fu visitato da Barnaba da
Corsara e nel 1477 Atanasio Calcepilo, Vescovo di Gerace, lo
trovò in cattive condizioni. Nel 1324 era egumeno Cipriano a
cui successe nel 1350 Nicodemus Fazzali. I basiliani occuparono il
monastero di Sant’Angiolo fino al XV secolo, dopo di che fu dato in commenda.
Per tutto il 1600 l’edificio si conservò nelle condizioni originali. Nei primi
anni del 1700 vi furono alcuni restauri ordinati dal Vescovo di
Tropea il quale fece anche costruire, annessa alla chiesa, una casa estiva per
sé e per il seminario.
Per quanto riguarda il monastero, gli
avanzi tardo-romanici si conservarono fino al 1955, epoca in cui
fu costruita la nuova Villa Felice.
L’attuale chiesa di San Michele
Arcangelo presenta una pianta a croce greca con cupola
di origine bizantina, affiancata da due campanili di singolare effetto
orientaleggiante. All’interno possiamo trovare pregevoli opere quali una tela
raffigurante l’Arcangelo San Michele di Nicola
Menzele da Napoli (XVIII sec.); la base dell’altare e
una mensola finemente intarsiate
risalenti al ‘7oo (periodo del restauro).
Dal monastero proviene un “enkolpion” a forma di croce fusa in bronzo trovata durante la costruzione della nuova Villa Felice quando, nel gettare un vecchio muro, si trovarono due ossari ed in uno di questi tra i poveri resti umani ormai ridotti a frammenti si recuperò anche la croce di bronzo. Si tratta del lato anteriore di una crocetta pettorale eseguita in fusione con figura a bassorilievo raffigurante il Crocifisso. Nel complesso il lavoro appare rozzo nella fattura e dovrebbe risalire al 600-700.
Attualmente è conservata nel tesoro della Concattedrale
di Tropea.
Ritornando indietro, girando a destra,
continuando sulla strada che da Tropea va a Vibo Valentia, dopo circa un
chilometro, si incontra il “bivio di S. Agata”.
Svoltando a destra si giunge, dopo qualche
chilometro, a Brattirò.
Il paese di Brattirò è sorto probabilmente in età bizantina tra il X e l’XI secolo col nome di Britarium o Britario nella parte antica dell’attuale paese detta “vajuni“, sulle sponde dell’antico fiume che gli scorreva vicino (ora prosciugatosi). Questo primo nucleo era formato da un gruppo di casupole di “bresti” (blocchi di paglia e fango cotti al sole).
Brattirò subì le dominazioni normanna,
dopo l’impero di Bisanzio, sveva, angioina e aragonese.
Durante il periodo aragonese, alla
pacifica popolazione del posto, che viveva di pastorizia e agricoltura, si unì
verso il 1300 una schiera di briganti assoldati dagli stessi
aragonesi per combattere gli angioini.
I suddetti briganti, distrutta Aramoni, centro
abitato sul Poro (a qualche chilometro da torre Galli), si spinsero nei
villaggi circostanti saccheggiandoli senza pietà. Molte suppliche furono fatte
a re Carlo V affinché intervenisse contro quell’orda. Finalmente, nel
1303, il re ordinò che tutti i valichi del Poro fossero presidiati e che tutti
i Rumbuli (il nome dei briganti) fossero annientati. Un solo bambino
scampato al massacro e allevato a Brattirò divenne il progenitore dei diversi
rami dei Rombolà, ancora esistenti nella Regione.
Nel ‘5oo Brattirò faceva
parte dei 23 Casali dipendenti da Tropea. Visse periodi di ostentata
floridezza, ma spesso fu sottoposta alla crisi economica conseguenza di vari
fattori sia sociali che ambientali. Il territorio circostante era comunque
ricco d’ogni genere di frutti, di cereali, legumi, vigneti, oliveti e piantagioni
di gelso. Si produceva molto vino, olio, mais, ciliegie, mandorle. Tra gli
abitanti molti svolgevano il lavoro di mulattieri o d’asinai, portando a Tropea
legna da vendere. Inoltre abbondava il cotone che cresceva spontaneamente.
Molti nobili di Tropea per vigilare sui loro
possedimenti e per stare lontani dal rumore della Città spesso risiedevano in
questo villaggio.
Agli inizi dell’‘800 il villaggio di
Brattirò venne aggregato al Comune di Ricadi e, dal 1 gennaio 1812,
entrò a far parte del Comune di Drapia.
La nostra visita, a Brattirò, comincia
con la chiesa dedicata ai Santi medici Cosma e Damiano, situata ad
alcune centinaia di metri prima di arrivare in paese, sulla Strada Provinciale.
Edificata nell’anno 1829, a devozione del canonico Gaetano Scordamaglia,
inizialmente era più piccola di come appare oggi e fu ampliata nell’anno 1929, a devozione di
Don Francesco Pugliese. E’ una piccola chiesa a forma rettangolare, con
abside semicircolare. E’ costruita in muratura di pietra calcare listata con
mattoni ad interasse di un metro, con soffitto in legno e copertura a due falde
in legno e manto di copertura in coppi di laterizi.
Né all’esterno né all’interno presenta particolari pregi artistici, l’unica cosa degna di qualche rilevanza artistica è una pittura su tavola che rappresenta la Madonna delle Grazie, con ai lati i Santi Cosma e Damiano (1829). Lasciata la chiesa, ci dirigiamo verso il paese, continuando per la provinciale e in seguito, continuando dritti nel paese per Corso Vittorio Emanuele, arriviamo fino a piazza Cesare Battisti, quindi sempre dritti, nel Largo Duomo, scorgiamo un lato della Chiesa dedicata a San Pietro Apostolo risalente alla seconda metà dell’ ‘800.
Attuale chiesa parrocchiale, durante i secoli subì
diversi interventi e ampliamenti, tra i primi intorno al 1879. In seguito fu
gravemente danneggiata dai terremoti. Interventi di restauro e relative
modifiche furono apportate nel 1910 e nel 1924. Attualmente si presenta ad
una sola navata, con abside semicircolare e con annessa cappella laterale. Lo
stile, interno ed esterno, è composito. Sulla facciata, divisa in due ordini da
una trabeazione, si notano una serie di lesene, il portale con timpano a lunetta,
sovrastato da una bifora. Al suo interno, decorato da lesene e stucchi,
possiamo trovare diverse pregevoli opere, quali: una statua della Madonna Immacolata di
Domenico Derposi (?) (nome poco leggibile) di Dinami (1804); una statua
di Sant’Anna dello stesso autore (1790);
una scultura di San Nicola (XIX sec.); una
scultura lignea di Santa Lucia (XIX sec.); una coppia
d’angeli in legno (XIX sec.);
un organo a canne, della bottega Petillo da
Napoli (XIX sec).
Tornando indietro e proseguendo verso
Corso Vittorio Emanuele, Piazza Cesare Battisti e Via Posta, ci immettiamo per
una piccola strada di campagna (dove c’è il Calvario). Percorrendola per circa
un chilometro si giunge nella contrada “Manna”, dove sorge una
piccola chiesetta dedicata alla Madonna del Rosario.
Edificata agli inizi del secolo XX, per devozione
del Canonico Don Michele Pugliese, fu restaurata nell’anno 1953. Ha
forma rettangolare, con abside semicircolare. Non ha particolari pregi
artistici, l’una cosa degna di qualche rilevanza è il quadro della Madonna del
Rosario (copia del quadro conservato nella Basilica di
Pompei) (XX sec.).
Seguendo nella stessa direzione
arriviamo all’imbocco della Strada Provinciale dove, girando a destra, ci si
immette sulla via che riconduce al centro abitato. Noi invece ci dirigiamo di
nuovo verso il bivio in contrada Sant’Agata. Svoltiamo a destra e, a qualche centinaio di
metri, a ridosso della strada provinciale, nel territorio della parrocchia di
Gasponi, sorge una piccola chiesa dedicata a Sant’Agata. La costruzione risale al 1902 e fu finita e consacrata il 4
agosto 1927. E’ un tipico esempio di chiesetta a
navata unica che si trova in ambito rurale, nel territorio del Poro.
La facciata è abbellita da un portale lapideo
sovrastato da una monofora a lunetta e culmina in alto con la struttura
campanaria. A unica navata, con forma rettangolare e con abside semicircolare è
costruita in muratura di pietra calcare listata con mattoni ad interasse di un
metro, con soffitto ligneo e copertura a due falde con portante in legno e
manto di copertura in coppi di laterizio. Attualmente è inagibile per il crollo
del soffitto.
Da vedere, ancora, la vicina fontana in
granito locale risalente al 1892.
Percorrendo la Provinciale, dopo circa due
chilometri, arriviamo a Caria, ultima tappa del nostro
itinerario.
Il primo agglomerato urbano sorse
probabilmente nel periodo bizantino con il nome di Caria, prendendo,
come ci dice il Barrio, la denominazione dall’omonima valle su cui si
innalzava. Inizialmente il paese non era situato dov’è attualmente, ma era un
po’ distante verso la località denominata “Casal Vecchio“.
Intorno al 1660, a causa dell’alta franosità del terreno, l’intera valle venne
inghiottita dalla fiumara Ruffa.
Tutto andò perduto: la Chiesa Parrocchiale, la torre
della famiglia Galluppi, palazzi, case e molti edifici. L’attuale paese fu
costruito, in seguito, ai piedi del monte detto “Cafaro“.
Nel 1677, dopo la costruzione del nuovo
paese, veniva edificata anche la nuova Chiesa Parrocchiale.
Il XVIII secolo fu a grandi linee,
un’epoca di benessere. In questo periodo a Caria si produceva molto frumento,
olio, lino, legumi, mais in quantità. Vi erano abbondanti alberi di fichi e
ciliegi. Caria, inoltre, era rinomata per l’aria salubre, molto indicata per
la convalescenza degli ammalati.
In questo villaggio risiedevano, in
alcuni periodi dell’anno, molte famiglie benestanti di Tropea, di solito, per
controllare i propri possedimenti.
Caria è stato uno dei 23 Casali
dipendenti da Tropea. Nei
primi anni del 1800 venne aggregato al Comune di Spilinga, al quale era
collegato da un ponte (andato distrutto).
Dal 1 gennaio 1812 entrò a far parte del
comune di Drapia. In questo periodo, la popolazione viveva d’agricoltura e se
anche c’era un certo benessere le condizioni di vita non erano migliori che
altrove.
Anche Caria ebbe i suoi briganti, tra
loro si ricorda Antonio Speranza, che si rifiutò di presentare servizio
militare al nuovo esercito e altri che furono veri e propri fuorilegge.
I due tremendi terremoti, già citati,
sconvolsero l’abitato, distruggendo diverse case e danneggiando gravemente la
chiesa parrocchiale.
Il visitatore che giunge nel paese di
Caria si immette per via Regina Elena, dove c’è un interessante
edificio, oggi di proprietà della famiglia Toraldo. Costruito agli inizi
del ‘900 su una preesistente struttura settecentesca, nel
1920 le sono state aggiunte le merlature che la fanno somigliare ad un
castello.
Molto particolari le bifore ogivali
goticheggianti e lo splendido balcone balaustrato, decorato con murature simili
a tende. Interessante da visitare il giardino.
Lasciato il “castello di Caria“,
c’è la chiesa di San Nicola. Di incerta origine,
inizialmente era più piccola, ma fu ampliata nella parte absidale alla fine del
XIX secolo e benedetta nell’anno 1893. Funzionò fino ai primi del
‘900, quando fu rovinata dai terremoti del 1905 e del 1908. Successivamente fu
utilizzata come sede dell’asilo infantile e, in seguito, come monumento ai
caduti della guerra del 1915-1918. Attualmente la chiesa si presenta a navata
unica con abside semicircolare. Da essa proviene una statua custodita nella
chiesa parrocchiale.
Continuando per Via Regina Elena, dopo
piazza Cavour, ci immettiamo per via Duomo per arrivare fino alla chiesa dedicata alla Trasfigurazione
di nostro Signore Gesù Cristo.
L’attuale chiesa parrocchiale di Caria
fu edificata nell’anno 1677. In origine essa era più
piccola. Infatti, tra il 1841 e il 1868, fu ampliata e le furono
apportate varie modifiche. Durante questi lavori venne sostituto l’antico
dipinto su tavola posto sull’altare maggiore, con il quadro con la scena del
monte Tabor.
Nel 1820 fu costruito il campanile.
La chiesa riportò seri danni a causa dei terremoti dell’8 settembre 1905 e del
28 dicembre 1908. Per diversi anni le funzioni religiose si svolsero nella
chiesa di San Nicola. Nel 1914 ebbero inizio i lavori di ricostruzione: venne rifatto il
pavimento e parte della facciata principale. Nel 1945 fu demolito e ricostruito
il campanile. Sette anni dopo fu ampliata la cappella di San Francesco di Paola
per fare posto ad altri tre altari. Infine, nel 1959, furono eliminati
il pulpito e gli altari laterali.
Attualmente la chiesa è un edificio di
stile composito. Sulla facciata esterna, colore nocciola, si notano quattro
lesene e una serie di fregi in stucco bianco. A destra, il campanile
incorporato termina in una guglia. Ha pianta rettangolare a navata unica, con
abside semicircolare e cappella laterale. Al suo interno, decorato con stucchi
chiari e colonne possiamo trovare alcune pregevoli opere, quali: uno
splendido ciborio proveniente dal
Convento di San Sergio e Bacco di Drapia, che dovrebbe risalire al ‘700; una tela della
Trasfigurazione di Gesù Cristo sul monte Tabor, (riproduzione
quasi integrale di quello custodito in San Pietro in Vaticano) del Petracca da
Ricadi, discepolo del Del Vivo da Napoli, (XIX sec.); una tela della Sacra Famiglia, insieme ai
Santi Giacchino e Anna (1887); una teladella Madonna del
Carmelo, con Sant’Ignazio di Loyola (a destra) e San Nicola
(a sinistra) (XIX sec); una tela dell’Ultima Cena, (XIX sec); una statua di San Francesco di
Paola (1870); una statua di San Nicola (XIX sec); una
statua dell’Immacolata di Domenico Morizzi di
Tresilico d’Oppido, (1864); un organo a canne costruito dalla
bottega Petillo di Napoli (1870).
Attaccato alla chiesa parrocchiale c’è
l’oratorio del SS. Sacramento e delle anime del
Purgatorio di proprietà della confraternita (vi si accede dalla
torre campanaria).
Edificata nel 1788, nel corso dei
secoli subì diversi interventi di ampliamento e ricostruzione. Attualmente è
adibita a deposito.
E’ una piccola chiesa a navata unica
con piccola cappella laterale, priva d’abside e con volta a botte. Non ha
particolari pregi artistici, l’unica cosa degna di qualche rilevanza è l’ottocentesca
tela dell’Ultima Cena, che un tempo si trovava
sull’altare e attualmente è posta nella chiesa parrocchiale.
Lasciato il piccolo oratorio,
immettendoci per Via Garibaldi, a sinistra della chiesa parrocchiale, a
circa seicento metri in discesa, attraverso una strada tra i campi, poco sotto
l’attuale sito di Caria, nel luogo detto “Santu Sidaru”, troviamo i
resti dell’antico monastero di Sant’Isidoro.
Sorto nel VIII secolo ad
opera di asceti basiliani, il cenobio era addossato a una verde collina che
sovrasta la Città di Tropea. Durante scavi condotti intorno agli anni ’60, sono
venute alla luce delle grotte, all’interno delle quali sono state identificate
vere e proprie tombe intagliate nella roccia. Probabilmente questi monaci
vivevano in celle separate, riunendosi solo la domenica per la liturgia. Tutto
il territorio intorno al Monastero è ricco di grotte, da ciò si deduce che
questi antichi monaci si allontanavano dal cenobio per meglio concentrarsi
nella preghiera e nella contemplazione e vi rientravano per la lettura dei
salmi e per la sepoltura dei loro morti. Molte sono le tombe scoperte proprio
nell’area dove sorgeva l’antico Monastero. Il sito ha sempre attirato
l’attenzione di noti archeologi, tra cui l’insigne Paolo Orsi che lo ha
visitato e studiato.
Ritornando indietro per la stessa
strada, immettendoci di nuovo per Via Garibaldi e Via Duomo, svoltiamo a
sinistra verso Via Gallo e, proseguendo sempre dritti, arriviamo al bivio che
ci immette di nuovo nella strada Provinciale. Ad un centinaio di metri
arriviamo alla chiesetta della Madonna del Carmine.
Eretta nell’anno 1897, da Giuseppe Pugliese, venne ampliata
nell’anno 1905 dal Pugliese grazie al contributo dei fedeli di tutta la zona.
Quando i lavori furono quasi terminati sopravvenne il disastroso terremoto
dell’8 settembre che la danneggiò fortemente. I lavori di ricostruzione vennero
eseguiti nel 1907. Successivamente, nel 1953, fu commissionata una tela della
Vergine del Carmelo a Ignazio Sambiase di Pizzo, che decora il soffitto.
Ai nostri giorni la chiesa è a navata
unica con abside semicircolare di stile composito e in muratura. Né
all’esterno, né all’interno presenta particolari pregi artistici.
Proseguendo sempre dritti per la Strada
Provinciale, dopo circa un chilometro, arriviamo nei pressi della grotta
di San Leo. Del periodo medioevale era
una grotta monastica basiliana nella quale sono conservati diversi affreschi.
Di difficile accesso, ubicata sulle
pendici della fiumara Ruffa, in un luogo altamente scosceso, è una delle poche grotte
eremitiche affrescate rimaste in Calabria.
Probabilmente, prese il nome
dall’eremita San Leo di Africo o di
Bova, santo calabro-greco, che quasi certamente visse nel X secolo.
Allo stato attuale, non presenta tracce
di muratura né, tanto meno, di una delimitazione dell’ingresso. Dall’esterno
della stessa, si abbraccia con lo sguardo tutta la parte interna,
semicircolare, affrescata. Non rimangono tracce del pavimento. La parte
superiore della grotta, piana, è intonacata. La parete di fondo è divisa in
cinque quadri rettangolari, disposti verticalmente. Del primo affresco, che
raffigura l’adorazione dei Magi, rimangono
delle piccole porzioni. Il secondo affresco, che rappresenta un Santo Papa e reca
l’iscrizione S.C.P.M. (Santo C. Pontefice Massimo), si conserva ancora in
discrete condizioni. Il terzo, che raffigura il Padre in trono
benedicente che sorregge dalle due estremità della croce
il Figlio crocifisso, appare rovinato, ma quasi integro nel suo insieme. Il
quarto affresco, che raffigura una Madonna sul trono con Bambino, culmina in
alto con un arco schiacciato e rispetto ai primi tre appare in una posizione
più elevata. Questi primi quattro affreschi, probabilmente del secolo XVI, sono
caratterizzati da una iconografia comune e delimitate ai lati da un cornicione
blu. L’ultimo affresco, il più rovinato, non ancora ben decifrato, andrebbe
studiato più attentamente. Secondo alcuni, riproduce l’iconografia della deisis. Di esso si
intravede appena l’immagine di Cristo, molto rovinata dall’umidità, e più
leggibile, una porzione superstite al taglio della parete effettuato al limite
del quarto affresco della Madonna. La composizione risulta schiacciata,
frontale, tipica dell’iconografia bizantina e per il tema e per l’esecuzione.
Tale affresco, perciò, è decisamente precedente a quelli presenti sulla parete
e può essere ascritto al secolo XI.
Per quanto riguarda le sue dimensioni,
essa era inizialmente più grande: era larga 5 metri e alta 3 metri.
Oggi le sue dimensioni variano: è larga 4,7 metri e
alta circa 2 metri. Purtroppo giace in uno stato di totale abbandono e
necessiterebbe di urgenti restauri.
Non lontano dalla grotta, nel vallone
dove scorre la fiumara Ruffa, cresce una rarissima specie di felce,
la Woodwardia radicans, appartenente
alla famiglia delle Blechnaceae, che costituisce uno dei relitti più antichi
della flora mediterranea.
Ritornando sulla Strada Provinciale
incontriamo i ruderi della residenza della famiglia Galli, la cosiddetta Torre Galli.
Edificata intorno alla metà del XIX secolo,
su preesistenti edifici, venne abbandonata a causa di un incendio che la
distrusse quasi completamente rendendola inagibile.
In tutta la zona nel 1922-23 sono stati
effettuati degli scavi diretti
dall’insigne archeologo Paolo Orsi. In quell’occasione è stato rinvenuto un
vasto insediamento dell’età del ferro riconducibile al Xe al VI secolo
a.C. e, un po’ più in basso rispetto al nucleo abitativo,
una necropoli risalente allo stesso periodo, con ben 334 tombe (quasi tutte a
inumazione in fossa), contenenti oggetti in bronzo, punte di lance e vasellame,
oggi esposti al museo di Reggio Calabria.
Altri scavi furono eseguiti a varie
riprese tra gli anni ’70-’80-’90 del XX secolo, dall’archeologo Marco
Pacciarelli.
Tra gli studi da lui compiuti, la
scoperta dei più antichi scarabei di produzione egiziana e
levantina rinvenuti nel Mediterraneo occidentale, indizio di precocissimi
contatti con navigatori provenienti dalle coste cipriote o del Vicino Oriente,
precursori dei Fenici, o Fenici essi stessi.
Continuando il nostro itinerario,
giunto ormai verso la fine, riprendiamo di nuovo la Strada Provinciale in
direzione di Caria.
Giunti a circa seicento metri da Torre
Galli, ci immettiamo, dopo l’ultima curva a destra, in una piccola stradina di
campagna. Percorriamo circa un chilometro e mezzo, prima che la strada continui
in discesa e incontriamo, a sinistra della stessa, sul colle che sovrasta
l’abitato di Gasponi, i resti della chiesa della Madonna del
Cardillo.
Non sappiamo quand’essa fu edificata.
Dovette essere una prebenda canonicale, come è ricordato nella monografia della
Diocesi di Nicotera e Tropea fatta dal Vescovo Taccone-Gallucci nel XIX secolo.
Le prime notizie che la riguardano risalgono al 1451. Dalle stesse possiamo
rilevare che la chiesa esisteva già da qualche tempo. Nel secolo XIX fu
abbandonata e destinata ad uso profano.
Attualmente consta di un solo ambiente
di forma rettangolare (diviso in seguito in due vani), le pareti sono in pietra
granitica e calcare ricoperti da intonaco. La porta principale d’accesso ha
forma d’arco a tutto sesto ed è costruita in conci di pietra tufacea.
Sempre nella zona, da visitare tra le
località Sant’Agata, Barone, Riaci e “Petti di Gasponi”, i resti di grotte
che ospitarono una comunità basiliana rupestre, di cui però non siamo certi
del nome. Sul periodo della sua edificazione non abbiamo notizie certe: è
sicuramente del periodo medioevale (fine del periodo bizantino). Di esso ci
rimangono tracce solo delle grotte eremitiche.
Intorno a queste grotte si notano ancora, in tutta
la zona, numerose incisioni tombali nella pietra dovute alla consuetudine di
seppellire i morti intorno alle grotte dei monaci.
Le persone ivi sepolte erano adagiate
col capo verso il tramonto e recavano un’anfora di terracotta vicino la testa. I
sepolcri contenevano scheletri umani, corredi funebri e anfore in terracotta e
sono conosciute come “tombe saracene“.
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Ultimo aggiornamento
21 Marzo 2020, 19:03